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La retrospettiva diventa un gioco serio con il metodo Lego® Serious play®!

Possiamo fare una retrospettiva agile in uno spazio creativo completamente nuovo in cui si possa provare ad esprimere i propri pensieri ad un buon livello di astrazione, profondità ed in poco tempo?

Certo! Si può fare utilizzando la metodologia Lego® Serious play®

Cos’è Lego® Serious play®

Lego® Serious play® (da ora in avanti LSP), in poche parole, è un modo diverso di conversare di tematiche complesse in maniera giocosa e seria. Potrebbe essere definito come un insieme di attività che combinano la modellazione metaforica attraverso la costruzione con i Lego per esplorare questioni complesse: uno strumento di comunicazione visiva, materica e cinetica dell’idea che si vuole discutere insieme. 

Il processo di LSP è composto da 4 fasi, in cui Il facilitatore:

  1. pone ai partecipanti domande strettamente legate all’obiettivo della giornata, la SFIDA
  2. le risposte sono fisicamente costruite con i mattoncini Lego®, che diventano il medium di storie, intuizioni e conversazioni, attraverso l’uso delle metafore, la COSTRUZIONE
  3. successivamente ciascuno racconta la storia della metafora rappresentata nel suo modellino, il RACCONTO
  4. e nell’ultima fase del processo si tracciano le conclusioni emerse dalle storie ascoltate, LA RIFLESSIONE.

Ciò che distingue davvero una sessione LSP da un normale incontro retrospettivo non è solo l’uso di LEGO, ma il metodo stesso, che fa in modo che la voce di tutti sia ascoltata.

I partecipanti, infatti, sono impegnati il ​​100% del tempo e contribuiscono con il 100% delle loro intuizioni, conoscenze, opinioni, idee e impegno.

Lo scopo del metodo LSP è realizzare e sfruttare TUTTO il potenziale presente nel gruppo. Non solo quello che normalmente viene espresso dai più vivaci, loquaci e attivi. Essere in grado di liberare e beneficiare del potenziale di tutti i partecipanti all’incontro produce più opinioni, idee, conoscenze, intuizioni e allo stesso tempo crea più coinvolgimento, impegno e fiducia.

Se vuoi approfondire: 

Perché usare LSP in una retrospettiva agile?

LSP permette l’uso di un linguaggio divertente e molto versatile perché

  • C’è un unico metro comunicativo: il mattoncino Lego®: Un linguaggio comune, semplice, immediato, comprensibile a tutti
  • È più facile capire un pensiero in 3D!  
  • Focalizza sulla Costruzione, non sulle persone; LSP permette di avere migliori conversazioni, più centrate sull’obiettivo e libere da giudizi soggettivi conflittuali
  • la partecipazione è al 100%: tutti parlano, tutti mettono sul tavolo le loro idee
  • Il gioco libera energie creative ed emotive: LSP permette l’emersione non solo dei fatti, ma anche degli aspetti emotivi che ci stanno dietro e che spesso altri format di retro sfiorano appena.  Questo dipende dalla forza metaforica del proprio pensiero espresso in 3D, della sua narrazione e condivisione che la metodologia riesce ad imprimere sulle mani e sul pensiero. 

Cosa puoi aspettarti:

Usare LSP  in una Retrospettiva aiuta i team a creare un mondo alternativo a quello dell’ufficio perché LSP trasforma lo spazio in un luogo creativo in cui le regole della vita lavorativa ordinarie sono temporaneamente sospese e sostituite con le regole di questo metodo. 

La maggior parte di noi ha familiarità con LEGO®, uno dei giocattoli di marca più conosciuti al mondo. Questo metodo offre ai membri del team l’opportunità di esprimere le proprie opinioni in modo “concretamente” astratto: è come stampare in 3D  la metafora dei propri pensieri e permette all’intangibile di diventare un oggetto che si può muovere nello spazio, si può toccare, modificare e studiare da più angolazioni. Questo aspetto di LSP è forse il dono più prezioso della metodologia perché permette di creare le condizioni che faranno emergere soluzioni inaspettate e sorprendenti.

E’ un metodo adatto sia ad un team altamente disfunzionale (con diversi problemi da risolvere, perchè i mattoncini possono aiutarlo a rimettere insieme i pezzi – letteralmente- e rifocalizzare il lavoro) sia ad uno che già lavora bene perchè i mattoncini portano le conversazioni e le dinamiche di gruppo a sorprendenti nuovi livelli.

Come si gioca:

Per preparare il terreno a questo tipo di retrospettiva, i membri del team dovrebbero accettare di rispettare le regole di quel nuovo spazio volontariamente (ad esempio la prima direttiva) poiché non è un gioco se le persone sono costrette a giocare. Questo accordo tra tutti i membri del team crea un luogo sicuro in cui i membri possono ingaggiare se stessi in comportamenti anche rischiosi o scomodi.

Usando termini più consoni, nello specifico si tratta di creare la sicurezza psicologica (è compito del facilitatore crearla e mantenerla): è la cosa più importante in un team, ancor di più se si gioca (con o senza lego®) per esaminare con onestà e tranquillità i fatti e le emozioni. Un clima interno al team psicologicamente sicuro è l’ingrediente che permette a tutti di esprimere sinceramente le proprie opinioni con il massimo dell’immaginazione e creatività, che il gioco naturalmente genera. Sulla psycological safety come pre requisito fondamentale per ogni team- agile e non– vi rimando a questo video, girato durante la conferenza 2019 di AGILE BUSINESS DAY. E’ anche un argomento del nostro corso Agile People Fundamentals & HR (ICP-AHR), e trovate un nostro articolo con un punto di vista diverso dal solito.

Per questa retrospettiva seguiremo il modello agile del libro:  Agile Retrospectives: Making Good Teams Great , di Esther Derby e Diana Larsen

Tempo necessario per la retrospettiva:

  • preparazione: 10 minuti
  • retrospettiva: 90-120 minuti

Cominciamo!

Ti servono

  • una certa quantità di mattoncini LEGO® misti (la quantità dipende dalle dimensioni della squadra). Di’ ai membri di sedersi intorno ad un tavolo (anche per terra va bene, è il primo luogo in cui abbiamo giocato) e metti i mattoncini nel mezzo.
  • musica (non invasiva o canticchiabile, che distrae, ma come sottofondo è un fattore di relax e di clima disteso)

Set the stage: HANDS OFF!

Definisci l’obiettivo e la direzione della retrospettiva. In particolare spiega a cosa serve, su cosa vuoi concentrare l’attenzione del team, e quali sono obiettivi: invita a parlare tutti, in maniera sintetica.

Warm-up: HANDS ON!

Si tratta di esercizi di “riscaldamento”, nello specifico 3

  1. Costruisci un aereo (1 minuto)- raccontalo
  2. Costruisci una cosa a caso con 7 pezzi (15 secondi); passa il tuo modellino al compagno alla tua destra e racconta con quello che ti è arrivato il tuo lunedì mattina (puoi utilizzare qualsiasi altro concetto);
  3. Pensa ad un regalo per una persona importante per te e costruisci la scatola (2 minuti)- raccontala;
  4. in alternativa, costruisci l’avatar personale con un punto di forza che pensi di portare nel team (2 minuti)-  raccontalo.

Questi esercizi hanno questi obiettivi:

  • prendere confidenza con i mattoncini (al punto 1 fai costruire un oggetto semplice, una torre per es, oppure un ponte). L’importante è che sia solo per giocare, divertente e con una piccola sfida incorporata
  • esercitare le persone all’uso della metafora e dello “storymaking”.

Le regole da ricordare al team e che il facilitatore si premura di far rispettare per mantenere la sicurezza psicologica sono:

  • non ci sono regole o linee guida da seguire nella costruzione (no, non è Fight Club)
  • stiamo rappresentando le nostre idee, non è una gara di costruzione, né di estetica
  • fidati delle tue mani, mettiti subito all’opera, non passare troppo tempo a pensare a cosa costruire, ma di costruire, perché il senso emergerà; 
  • raccontare solo la storia del modellino, così facendo non ci si perdera mai; se quello che si racconta non è nel modellino, non interessa.
  • ogni costruzione è GIUSTA e il senso è SEMPRE accettato da tutti, sono vietate le interpretazioni
  • si possono, anzi, è stra-consigliatofare domande sui modellini degli altri per approfondire i concetti espressi dal costruttore, evitando giudizi.

Gather data: HANDS ON!

In questa fase con LSP faremo un esercizio individuale che serve a raccogliere i dati 

Lavoro INDIVIDUALE (7 minuti)

In questo passaggio invita tutti a pensare allo sprint appena concluso e poi lancia la sfida: 

Costruisci un modello che rappresenti come ha lavorato secondo te il team nell’ultima sessione; focalizzati su valori, comportamenti, atteggiamenti (positivi/negativi, interni/esterni)

music on!

I partecipanti possono usare tutti i mattoni di cui hanno bisogno. Occorre dare loro tempo per essere creativi e per pensare all’ultimo sprint. Alcuni inizieranno subito, altri potrebbero pensare di più e, come facilitatore, potresti incitarli a fidarsi del processo, delle mani ed invitarli a costruire qualcosa perché il senso emergerà, in qualche modo. La musica può aiutare a rendere l’ambiente ancora più confortevole.

  • Describe: fai scrivere su post it poche parole che riassumano il significato del modello
  • Share: fai raccontare a ciascuno il suo modellino (2 minuti a testa)
  • Inspect: a fare domande sul modellino e suo significato (1 minuto)

Get InsightsHANDS ON!

Lavoro di TEAM: POSIZIONAMENTO (10 minuti)

In questo passaggio usiamo i modellini dei dati per far costruire al team una rappresentazione unitaria e condivisa dell’ultimo sprint, invitandoli a posizionare sul tavolo i loro modelli in modo da stabilire fra essi delle relazioni che diano senso e vita a una configurazione complessa. Più i modelli sono vicini, più la relazione tra loro è forte. Tutti i modelli devono essere posizionati, senza essere modificati e con minimo un palmo di distanza l’uno dall’altro (niente ammucchiate!). Quando avranno terminato un portavoce presenterà il risultato. In gergo LSP questa tecnica è chiamata “landscape”, data la forte connotazione “geografica” del posizionamento.

È in questa fase che il team, mettendo in relazione i fatti, raccontandoseli, identifica in modo creativo trend, connessioni, relazioni e correlazioni causa-effetto in modo molto veloce. 

STABILIRE DELLE PRIORITA’: Con il team davanti al landscape, il facilitatore può ora chiedere, In base alla storia che il team ha raccontato e ai significati dei modellini, su cosa vuole lavorare e con un veloce un dot voting vengono scelti i modellini temi su cui si vuole discutere.

Decide what to do: HANDS-ON!

Lavoro INDIVIDUALE (3 minuti)

In questo passaggio invita tutti a pensare a delle idee di miglioramento e lancia la sfida:

Costruite una o più idee di miglioramento per uno (si, uno solo) dei punti più rilevanti emersi dalla fase precedente.

Velocemente fai raccontare le idee, falle scrivere su un post it e posizionarle vicino al punto critico scelto. Alla fine il team avrà in un solo colpo d’occhio i punti con il maggior numero di idee attorno.

Potranno scegliere a quale dare priorità. (dot voting delle idee di miglioramento, due o tre al massimo)

Decide what to do: HANDS OFF!

La fase di costruzione è finita e si chiude con le azioni. Stimolando un braistorming su come implementare queste idee, si chiede a ciascun membro del team di scrivere un’azione specifica. Come ultima scelta, di decidere le azioni prioritarie per ogni idea. Questa fase si fa normalmente con i post it.

Close: HANDOFF!

In questa fase ognuno esplicita l’azione cha ha deciso e si cercano punti di miglioramento per la prossima retrospettiva.

Sicurezza psicologica

SICUREZZA PSICOLOGICA: NON E’ MAI SOLO MERITO (O DEMERITO) DEL LEADER

In ogni obiettivo di change, un buon clima di sicurezza psicologica in azienda è un ingrediente indispensabile per ottenere risultati interessanti.  In che modo un consulente può verificare rapidamente la situazione? E oltre agli stili di leadership ci sono altre direzioni da indagare per farsi un quadro completo e agire con la migliore efficacia?

La sicurezza psicologica (Psychological Safety) è un concetto che inizia a prendere corpo verso la fine del secolo scorso.  

Per molti aspetti è correlabile al tema del clima organizzativo, e in genere viene definito come un’atmosfera in cui le persone riescono a mostrare ed impiegare se stesse in una attività, senza paura delle possibili conseguenze negative.  

E’ ovvio che se una persona percepisce come pericoloso o svantaggioso l’assumersi rischi interpersonali nel posto di lavoro, se una risorsa, un membro del team, ritiene che le proprie idee potranno essere accolte con diffidenza o, peggio, banalizzate o addirittura non considerate, si può dire che si è in un ambiente caratterizzato da una scarsa sicurezza psicologica.

In un periodo come quello che stiamo vivendo, la natura delle mansioni sta subendo un forte cambiamento: la modularità, la prevedibilità, gli aspetti routinari stanno lasciando il posto a compiti che richiedono capacità di giudizio, di proporre nuove idee, di comunicazione e di gestione dell’incertezza. 

Ecco perché è importante ottenere che gli ambienti di lavoro siano il più possibile “psicologicamente sicuri”, dal momento che in tali ambienti i lavoratori possano sentirsi liberi di sbagliare e di condividere eventuali errori con altri senza la paura di sentirsi umiliati, in imbarazzo, o addirittura puniti. 

Capire in fretta il contesto in cui si agisce

In ambienti caratterizzati da scarsa sicurezza psicologica è veramente difficile condurre in porto un progetto di cambiamento che funzioni.

Dal punto di vista di un consulente è perciò essenziale potere avere rapidamente un polso della situazione prima ancora di entrare nella fase progettuale e di raccolta dati.

Adam Grant, psicologo americano molto attento alle dinamiche organizzative, propone un elenco di KBI -key behavioral indicators- che possono fungere da primo orientamento. 

In un’organizzazione dove c’è un clima di sicurezza psicologica le persone non temono di verbalizzare frasi come:

  • Non lo so
  • Ho fatto uno sbaglio
  • Non sono d’accordo 
  • Forse sono in errore
  • Ho una preoccupazione
  • Ho un’idea

Dunque la presenza -o l’assenza- di esternazioni di questo tipo costituisce già di per sé un valido indicatore, da completare ovviamente con interviste e questionari.

Nel caso in cui la situazione faccia trasparire un clima di scarsa sicurezza da dove si dovrebbe cominciare?

Nella letteratura corrente il primo indiziato è il capo, il leader. E’ lui che viene di solito indicato come il principale responsabile nella creazione di un clima psicologico funzionale, come sembra proporre la psicologa americana Amy Edmondson.

Non di solo leader

Nella definizione di Amy Edmondson, la sicurezza psicologica  è un fenomeno sistemico a livello di gruppo, in cui la fiducia reciproca gioca un ruolo essenziale. 

La dinamica che ne deriva è in grado di generare apprendimento di schemi comunicativi efficaci, che sfociano  nella creazione di comportamenti altrettanto efficaci e di prestazioni lavorative in crescita.  

Amy Edmondson mette in primo piano la capacità di agire una comunicazione efficace: tra colleghi, a soprattutto tra leader e collaboratori.

Indubbiamente il fatto di impostare l’intervento anzitutto sui manager è un passaggio obbligato, tuttavia sarebbe fuorviante pensare che la cosa si possa risolvere con un po’ di coaching sui team leader.

Infatti le dinamiche relazionali alla base di un clima di sicurezza psicologica non fluiscono solo verticalmente, ma anche orizzontalmente.

Antipatie, invidia, intolleranza sono spesso presenti anche tra pari, e non ci si può aspettare che un leader per quanto illuminato abbia le competenze (e il tempo) per gestire e risolvere situazioni di questo genere.

Senza poi citare i numerosi casi in cui il team leader nulla può contro un CEO o un Direttore generale di vedute ristrette ed egoriferiti

Criterio operativo, allargare il quadro

Va detto in sintesi che l’approccio della Edmondson contiene spunti utili, ma -a parte l’enfasi eccessiva sull’azione del leader, la sua impostazione sconta una visione dell’azienda come un sistema chiuso: l’insicurezza, il disorientamento nascono spesso anche altrove, in altri sistemi di cui ognuno è parte, per poi essere importati in azienda.  

Per chiarire meglio, Urie Bronfenbrenner -psicologo sistemico -propone già dagli anni ’70 del secolo scorso un “modello ecologico” dove ognuno è parte di più sistemi concentrici:

  • microsistema: ad esempio la famiglia, il lavoro, gli hobby
  • mesosistema: situazioni che nascono dal modo con cui il soggetto con la sua azione diretta crea connessioni tra i vari Microsistemi
  • esosistema: nasce dall’interconnessione tra due o più contesti sociali dove la persona può non avere un’azione diretta.  Ad esempio luogo di lavoro- situazione di mercato
  • macrosistema: comprende le istituzioni politiche ed economiche, i valori della società, la sua cultura.

E’ evidente che le possibili influenze rispetto a una atmosfera di sicurezza psicologica sul luogo di lavoro possono arrivare da molto lontano e anche da contesti differenti da quello lavorativo.

Questo naturalmente allarga la sfida per il consulente, ma gli offre anche una utile indicazione per la sua attività di indagine: non limitarsi a indagare ciò che cade sotto i propri occhi, ma spingersi oltre e mappare un quadro sistemico il più ampio possibile.

Ciò gli darà la capacità di agire tenendo conto dei fattori influenzanti più rilevanti, qualunque sia la loro origine, e di predisporre strategie opportune e realmente calzanti alla situazione.

E’ evidente che le possibili influenze rispetto a una atmosfera di sicurezza psicologica sul luogo di lavoro possono arrivare da molto lontano e anche da contesti differenti da quello lavorativo.

Questo naturalmente allarga la sfida per il consulente, ma gli offre anche una utile indicazione per la sua attività di indagine: non limitarsi a indagare ciò che cade sotto i propri occhi, ma spingersi oltre e mappare un quadro sistemico il più ampio possibile.

Ciò gli darà la capacità di agire tenendo conto dei fattori influenzanti più rilevanti, qualunque sia la loro origine, e di predisporre strategie opportune e realmente calzanti alla situazione.

Camillo Sperzagni

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MEGLIO RIBELLI, RESISTENTI O RESILIENTI? O ALTRO ANCORA?

Le cronache di questo periodo ci riportano ogni giorni episodi di ribellione (USA, Hong Kong..) di resistenza (come gli indios dell’Amazzonia contro le multinazionali della deforestazione), di resilienza (società, sistemi e comunità che rialzano la testa dopo l’ondata epidemica).

Da sempre l’umanità e gli individui hanno dovuto misurarsi con eventi naturali o sociali che ne hanno messo in pericolo la sopravvivenza o quantomeno la tenuta: ma come si è visto le strategie di fronteggiamento sono diverse, e così pure gli esiti che ne derivano.

Parlare di etimologia non è un puro esercizio di erudizione: come è stato più volte sostenuto, in particolare dal linguista americano George Lakoff(1980) , le parole che scegliamo sono metafore che ci orientano e predispongono ad agire.

Ribellione

Per cui, se dobbiamo “misurarci contro un evento negativo” entriamo immediatamente in una metafora di combattimento, anche se l’evento non è necessariamente una persona: “misurarci “(metafora: in realtà mica usiamo il metro), “contro” (altra metafora: l’evento non è di fronte a noi guardandoci in cagnesco) un evento “negativo” (gli eventi non danno assensi né negazioni, sono semplicemente quello che sono).

L’etimologia in particolare è istruttiva in quanto rivela le metafore già nascoste nelle singole parole.

Iniziamo dunque con il concetto di ribellione: il termine deriva dal latino rebellionem, composto dal suffisso “re-” e da “bellum”, guerra. In sostanza, rilanciare una guerra contro un’entità (umana, di solito) che si classifica come un nemico minaccioso e/o opprimente.

Ma ribellarsi è giusto, come diceva Mao Zedong (non a lui, ovviamente)?

Visto che la ribellione configura un clima psicologico di guerra, è forse bene pensarci due volte. Perché ogni guerra innesca fatalmente un’escalation di aggressività e violenza, dove alla fine c’è chi vince e chi viene schiacciato.

La storia dimostra che nella stragrande maggioranza dei casi il perdente è proprio chi si ribella.

E non è un caso: ribellarsi è in sé una strategia “via da”, senza un’idea chiara sugli obiettivi a medio e lungo termine, innescata da emozioni come la rabbia e la disperazione, che non aiutano a pensare con lucidità. A volte tuttavia la ribellione è vista come mezzo e non come fine a sé stessa.

“La guerra è uno strumento della politica”

Von Clausewitz

Il generale prussiano, però specificava che chi fa la guerra e chi fa la politica non sono le stesse persone, per cui non di rado capita che qualcuno sia indotto a ribellarsi per i calcoli politici di qualcun altro.

Sorella minore della ribellione è la renitenza, dal verbo latino “niti”, puntarsi, sforzarsi: l’atteggiamento individuale di chi, impossibilitato a modificare una situazione indesiderata, vinto ma non domo, scalcia e cerca vie di fuga personali.

Infatti il contesto classico in cui si parla di renitenza è quello del reato, oggi peraltro inattivo, di “renitenza alla leva”.

E’ curioso osservare come molti atteggiamenti giovanili, classificati come ribelli, andrebbero in realtà inquadrati come renitenti.

Resistenza

Un termine che in Italia ha una connotazione storica precisa, ma che viene comunque usato per indicare episodi in cui una minoranza -vista eticamente come dalla parte del giusto- si oppone a un avversario, non necessariamente militare, con eroismo e saldezza di principi.

Infatti la parola “resistenza” ci arriva direttamente dalla radice sanscrita “stha- rendere fermo, saldo – preceduta dal prefisso “re”- indietro .

Dunque una salda opposizione contro qualcuno, portata avanti mantenendo risolutamente la propria posizione:

“La resistenza delle piccole imprese contro la crisi”,

“La resistenza del quartiere contro gli sfratti dalle abitazioni”,

e così via.

Anche qui però il punto debole sta nel fatto che spesso è più facile coalizzarsi per resistere che per realizzare qualcosa nel caso in cui la resistenza abbia successo.

La storia dell’Italia del dopoguerra ne è un chiaro esempio, ma potremmo citarne a decine.

Naturalmente, come per la ribellione, anche la resistenza si presta ottimamente a essere uno strumento della politica.

Resilienza

Se invece c’è un termine sulla cresta dell’onda, è questo.

Entrato nell’uso comune solo a inizio secolo in ambito psicologico, viene già citato in realtà da Cartesio nel 1670, parlando delle proprietà elastiche di certi materiali.

Parola di origine sempre latina, composta dal prefisso “Re-” e “salire-” cioè fare salti, rimbalzare, era già in uso nella lingua italiana nel XVIII secolo, ma sempre applicato alla fisica di certi materiali in grado di assorbire urti, deformarsi e ritornare poi alle condizioni iniziali.

Un materasso a molle è una metafora di resilienza.

Nel giro di pochi anni invece questa proprietà è passata in senso metaforico a contrassegnare, in ambito umano, un certo “spirito di resilienza”, connotato dalla capacità di sopravvivere a traumi, crisi e rovesci senza soccombere e anzi reagendo con spirito di adattamento riprendendo il cammino interrotto (Trabucchi,2007).

Rispetto ad uno scenario socioeconomico caratterizzato da crisi e instabilità, la capacità di resilienza sembra essere il rimedio -o la prevenzione – per molti guai: ma è davvero così?

Ex-Aptation

Per il pensiero sistemico, ciò che consente ai sistemi complessi -specie viventi, organizzazioni, sistemi sociali- di avere successo in un contesto che cambia non sono tanto l’adattamento o la resistenza, quanto un’altra proprietà che ci arriva dalla biologia (Gould, Vrba, 1982) : in inglese viene detta ex-aptation (gioco di parole su ad-aptation).

Nella lingua italiana è tradotto come pre-adattamento, ma non rende pienamente l’idea, sarebbe più esatto dire pre-attamento.

Mentre l’ad-attamento (dal latino ad-aptare, cioè agire per ottenere una conformità) è una strategia reattiva, volta a recuperare o cancellare un gap rispetto alle mutate condizioni contestuali, il pre-attamento è la straordinaria capacità dei sistemi complessi di giocare in anticipo, combinando in modo innovativo risorse o caratteristiche già presenti per assicurarsi vantaggi competitivi.

Il fatto di usare le penne per volare anziché solo per regolare la temperatura ha assicurato agli uccelli il dominio di un intero ecosistema; l’idea di usare una rete, nata per scambiare dati in condizioni di emergenza, come un moltiplicatore di flussi informativi condivisi ha creato il WEB che tutti usiamo.

Exaptation vuol dire usare in modo nuovo ed evolutivo risorse concepite originariamente per tutt’altri scopi.

Se paragoniamo la resilienza all’exaptation, vediamo una certa differenza: la prima significa semplicemente un ripristino omeostatico dell’equilibrio di un sistema, la seconda porta invece un vantaggio che prima non c’era grazie alla riconfigurazione generale del sistema.

Tutta la storia dell’evoluzione sul nostro pianeta nasce proprio dall’attitudine di certi sistemi -gli altri si sono estinti- di utilizzare le crisi e le difficoltà per divenire più capaci di utilizzare i cambiamenti a proprio favore anziché limitarsi a ricominciare da capo (Holland, 2006).

Antifragilità

E’ lo stesso concetto che Nassim Taleb, filosofo e matematico libanese naturalizzato americano, definisce come “antifragilità” (2012): mentre una struttura fragile si disgrega, e una robusta impegna tempo e risorse per restare com’è, la struttura antifragile può utilizzare le perturbazioni per crescere e prosperare.

In sintesi si può dire che la resilienza altro non è che una robustezza basata sull’elasticità invece che sulla rigidezza.

E’ già qualcosa, ma resta comunque una strategia orientata a superare crisi e traumi per poter tornare a dove si era rimasti.

Disruption

Prendiamo un altro anglicismo caro al pensiero organizzativo: disrupting.

Era in voga prima del Covid 19, poi la disruption è arrivata e ancora ci siamo in mezzo.

Comunque sia, resiliente e disrupting stanno su fronti opposti e delineano due strategie competitive rispettivamente basate la prima sull’aumento dell’efficienza e della flessibilità (resilienza), la seconda sull’innovazione e sul cambiamento organizzativo (exaptation).

Certo va detto che la parola resilienza suona molto meglio di antifragilità o exaptation, e forse anche a questo deve il successo di cui gode in questo momento.

Inoltre, c’è da aggiungere che è anche più rassicurante: promette di restare fondamentalmente ciò che si è, skillati e irrobustiti dalle prove superate.

Come molti concetti del pensiero complesso, antifragilità ed exaptation non sono facili da capire e nemmeno da praticare.

Eppure le scienze della vita ci insegnano che la strada del vero cambiamento -e del successo evolutivo -non può che passare da qui.

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IL PILASTRO MANCANTE

Il neuroscienziato Richard Davidson ha elaborato un interessante modello per costruirsi un benessere “da dentro”, al riparo da imprevisti e turbolenze della vita. Ma al momento c’è ancora qualcosa che manca: il Purpose.

In un nuovo articolo, David Goleman parte da una considerazione interessante.

Ogni gennaio, circa un americano su tre prende una risoluzione per migliorare se stesso in qualche modo.

La ricerca suggerisce che a sei mesi dall’inizio del nuovo anno, ovvero in pochi mesi, meno della metà di queste persone è ancora in linea con l’obiettivo di raggiungere il proprio obiettivo.

Un’ampia percentuale di questi obiettivi, ben oltre la metà, è correlata al benessere o alla forma fisica. Cose come “corri di più” o “prenditi una pausa” o “dormi meglio”. E via dicendo.

Risultati simili li abbiamo ottenuti anche noi durante un recente seminario del LISA -Laboratorio di Intelligenza Sistemica Applicata.

Goleman si chiede -e noi con lui- se questi sono gli unici posti in cui dovremmo mettere la nostra energia, o se invece c’è qualcos’altro su cui potremmo investire per un benessere più costante e profondo.

Lo scorso luglio, il sondaggio di monitoraggio della Kaiser Family Foundation ha riferito che più della metà degli adulti statunitensi ha segnalato un calo della propria salute mentale a causa della preoccupazione e dello stress per la pandemia, rispetto al 32% segnalato nel marzo del 2020.

Abbiamo buoni motivi per ritenere che in Italia le cose non vadano meglio.

Considerato quanto è stato stressante l’ultimo anno, ci domandiamo se sia possibile trovare fonti di felicità meno dipendenti dalle incertezze e dalle turbolenze che la vita può offrirci.

Pensando a qualcosa di concreto da considerare quando cerchiamo un antidoto al nostro malessere, il dato forse più importante, benché in genere non il più evidente, è la differenza tra il tipo di felicità che dipende da ciò che ci accade giorno dopo giorno e un senso di benessere che viene da dentro.

Richard Davidson è un neuroscienziato e fondatore del Center for Healthy Minds presso l’Università del Wisconsin, amico e collega di Goleman.

Sulla base di anni di ricerca scientifica, lui e i suoi colleghi hanno introdotto un quadro per il benessere che trascende ciò che tradizionalmente abbiamo considerato “buono per noi”.

I quattro pilastri

Nel suo modello il benessere ha quattro pilastri:

  • Awareness (Consapevolezza nel senso di Presenza): la nostra attenzione al nostro ambiente, alle sensazioni corporee, ai pensieri e ai sentimenti, il grado in cui notiamo (o meno) i dettagli della nostra esperienza.
  • Connessione: quanto siamo legati agli altri e al mondo che ci circonda, il grado in cui pratichiamo apprezzamento, gentilezza e compassione.
  • Insight: quanto e quanto spesso coltiviamo la curiosità e la conoscenza di noi stessi.
  • Scopo (Purpose): il grado in cui comprendiamo i nostri valori e le nostre motivazioni, utilizzandoli come una stella polare in base alla quale guidiamo le nostre decisioni.

Ciascuno di questi pilastri si focalizza su competenze specifiche che possono essere apprese e rafforzate nel tempo, come dimostrano anche diversi studi di laboratorio.

Davidson sostiene che se vogliamo trovare un senso di felicità e benessere nelle nostre vite, dobbiamo coltivarli in egual misura.

Non sono separati: sono per così dire quattro facce di un’unica medaglia.

Il tipo di felicità “da fuori” può facilmente subire un picco negativo ogni volta che si verificano delle avversità, come in questo periodo di blocco e recessione in cui continuano ad accadere cose brutte.

Ma il secondo – il tipo “da dentro” su cui sta lavorando Davidson – offre una sorta di vaccinazione contro questi alti e bassi.

Tornando all’inizio, è chiaro che obiettivi come quelli dichiarati più sopra -tempo per sé, forma fisica, relazioni affettive ecc – sono ottimi per i pilastri che Davidson chiama awareness e connessione.

Ma è sugli altri due pilastri che invece c’è in genere scarsa attenzione. Qualcosa forse sull’insight, ma zero sullo scopo: il quarto pilastro.

Che è quello della trasformazione evolutiva, del salto di livello, della coscienza di sistema.

Anche Goleman infatti si chiede: che tipo di riflessioni stiamo facendo riguardo al purpose? Possiamo trovare un senso di significato più ampio del nostro interesse personale?

Interrogativi che anche noi non solo condividiamo, ma sui quali già ci stiamo impegnando per far crescere la “consapevolezza sistemica” delle persone, sviluppando un mindset che connette invece di separare, che interagisce invece di controllare, che rilancia invece di arroccarsi.

Per uscire da quell’egoriferimento esteso che fa da tappo alla nostra evoluzione personale e sociale.

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BUFALE E DISSONANZA COGNITIVA

La dura battaglia contro il dilagare di false credenze, nuove superstizioni e vecchi pregiudizi: il nemico è nel nostro cervello.

Perché fake news, teorie complottiste e credenze manifestamente illogiche continuano a diffondersi e sono così difficili da estirpare?

Almeno sul piano psicologico, una spiegazione c’è. E’ la teoria della dissonanza cognitiva, elaborata già negli anni ’50 dallo psicologo sociale Leon Festinger. Di che si tratta? Quando un individuo attiva due idee o comportamenti che sono tra loro coerenti, si trova in una situazione emotiva soddisfacente (consonanza cognitiva); al contrario, se le due rappresentazioni sono tra loro contrapposte o incompatibili si troverà a vivere una difficoltà nel decidere e giudicare. Questa incoerenza produce appunto una dissonanza cognitiva, che l’individuo cerca automaticamente di eliminare o ridurre a causa del marcato disagio psicologico (ad esempio riduzione dell’autostima) che comporta; questo porta all’attivazione di vari processi elaborativi, che permettono di compensare la dissonanza (e ripristinare l’autostima). E tutto questo, senza alcun nesso con l’appropriatezza o la bontà del risultato finale: ciò che conta è semplicemente ritrovare un senso di coerenza interna.


Un esempio si può avere quando un soggetto disprezza esplicitamente i ladri, ma compra un oggetto a un prezzo troppo basso per non intuire che sia di provenienza illecita. Secondo Festinger, per ridurre questa contraddizione lo stesso individuo potrà smettere di disprezzare i ladri (modificando quindi l’atteggiamento), o non acquistare l’oggetto proposto (modificando quindi il comportamento). O addirittura indignarsi perché si autoconvince che qualcuno –specificato oppure no- deve averlo ingannato al proposito (modificando quindi le sue opinioni sul contesto).
Generalizzando, la dissonanza cognitiva può essere ridotta in tre modi:
producendo un cambiamento nell’ambiente;
modificando il proprio comportamento;
modificando il proprio mondo cognitivo (ovvero il sistema delle proprie rappresentazioni cognitive e delle loro relazioni funzionali interne)
Se ne avete voglia, potete applicare questo schema a tanti fenomeni, dalla percezione della crisi all’atteggiamento verso l’immigrazione clandestina.

In un famoso studio, Festinger e i suoi colleghi si infiltrarono in una setta guidata da tale Dorothy Martin –una casalinga di periferia- che profetizzava una imminente, apocalittica inondazione in cui lei e i suoi seguaci sarebbero stati salvati su dischi volanti da uomini dallo spazio chiamati i Guardiani. Inutile dire che nessun uomo dello spazio (e nessuna alluvione) si manifestarono al momento indicato dalla profetessa, che però continuò a rivedere le sue previsioni. Certo, gli spaziali non si erano presentati nel giorno previsto, ma senza dubbio sarebbero arrivati domani, e così via. I ricercatori guardavano affascinati mentre i credenti continuavano a credere -nonostante tutte le prove a sfavore – e anzi raddoppiavano il loro zelo nel fare proseliti. Festinger, anche in seguito, descrisse l’aumento della convinzione e del proselitismo dei membri del culto pur dopo la disconferma come esempio specifico di dissonanza cognitiva (l’aumento del proselitismo contribuiva a ridurre la dissonanza con la consapevolezza che altri accettano le loro convinzioni). Un meccanismo “diabolico” che può essere applicato per comprendere certi fenomeni di massa.

“Un uomo con una convinzione è un uomo difficile da cambiare”, scrissero Festinger, Henry Riecken e Stanley Schacter in Prophecy Fails, il loro libro del 1957 su questo studio. “Digli che non sei d’accordo e lui si allontana. Mostrargli fatti o figure e egli mette in discussione le tue fonti. Appellati alla logica e lui non riuscirà a vedere il punto … Supponiamo di esserci presentati con prove, prove inequivocabili e innegabili, che la sua credenza è sbagliata: cosa accadrà? L’individuo emergerà frequentemente, non solo inscalfitto, ma ancor più convinto della verità delle sue convinzioni “.

Questo rafforzamento di fronte a prove conflittuali è un modo per ridurre il disagio della dissonanza e fa parte di un insieme di comportamenti noti nella letteratura psicologica come” ragionamento motivato “. Il ragionamento motivato è il modo in cui le persone si convincono o restano convinte di quello a cui vogliono credere : cercano informazioni gradevoli che imparano più facilmente; evitano, ignorano, svalutano, dimenticano o contestano informazioni che contraddicono le loro convinzioni. In uno studio del 1967, i ricercatori avevano messo alcuni soggetti sperimentali ad ascoltare discorsi radio pre-registrati, dopo averli avvertiti che i discorsi sarebbero stati piuttosto lenti e mal sintonizzati, ma che avrebbero potuto premere un pulsante che migliorava la sintonia per alcuni secondi quando avessero voluto ottenere un ascolto più chiaro. Talvolta i discorsi erano relativi al fumo – dove si facevano collegamenti al cancro o viceversa si smentivano – o a volte erano argomenti che attaccavano il cristianesimo. Cosa accadeva? I soggetti che fumavano erano molto pronti ad azionare il bottone per sintonizzarsi con il discorso che suggeriva che le sigarette non potevano causare il cancro, mentre i non fumatori erano più propensi a premere il bottone per il discorso antifumo. Allo stesso modo, i frequentatori di chiese più assidui erano felici di lasciare che il discorso anticristiano si sciogliesse nei disturbi di fondo, mentre i meno religiosi si davano da fare col bottone.

Al di fuori di un laboratorio, questo tipo di esposizione selettiva è ancora più facile. È possibile disattivare la radio, cambiare canali, gestire le pagine di Facebook che danno il tipo di notizie che si preferiscono. È possibile costruire un comodo ammortizzatore delle informazioni che non piacciono. La maggior parte delle persone tuttavia non è totalmente accovacciata in una caverna ammortizzata. Costruisce finestre nel muro, sbircia di volta in volta, va a fare lunghe passeggiate nel mondo. E così, incontra occasionalmente informazioni che suggeriscono qualcosa che smentisce le sue supposizioni. Molti di questi casi non sono impegnativi e le persone cambiano idea, se l’evidenza dimostra che dovrebbero – pensavi fosse bello oggi, esci dalla porta e piove, prendi un ombrello. Semplice. Ma se la cosa che dicono essere sbagliata è una credenza che è strettamente legata all’identità o alla visione del mondo – il guru a cui hai dedicato la tua vita è accusato di alcune cose terribili, le sigarette da cui sei dipendente possono ucciderti – beh, allora si diventa contorsionisti della logica, facendo tutta la ginnastica mentale che serve per rimanere convinti di aver ragione. Secondo lo psicologo Tom Gilovich, la gente giudica più deboli le prove che non sono d’accordo con loro, perché in definitiva si fanno domande fondamentalmente diverse per valutare quelle prove, a seconda che vogliano credere o no a ciò che viene suggerito. “Per le conclusioni desiderate,” scrive, “è come se ci chiedessimo ” Posso credere a questo? “, Ma per le conclusioni spiacevoli chiediamo:” Devo credere a questo? ” La gente si accosta a certe informazioni in cerca di un appiglio per credere, e a certe altre cercando vie di fuga.

Nel 1877, il filosofo e matematico William Kingdon Clifford scrisse un saggio intitolato “L’etica della credenza”, in cui sostenne: “È sempre sbagliato, ovunque e per chiunque credere a qualcosa su prove insufficienti”. Lee McIntyre, ricercatore presso il Centro per la Filosofia e la Storia della scienza presso l’Università di Boston, assume un tono simile a livello morale nel suo libro “Rispettare la verità: volontà e ignoranza nell’era di Internet”: “Il vero nemico della verità non è ignoranza, dubbio o addirittura incredulità”, scrive. “È falsa conoscenza”. Il fatto che si tratti di mancanza di etica o meno non coglie però il punto, perché di fatto le persone sbaglieranno e crederanno le cose su prove insufficienti. E inoltre le loro comprensioni delle cose che credono spesso sono incomplete, anche se sono corrette. Quante persone che (giustamente) credono che il cambiamento climatico sia reale possono in realtà spiegare come funziona? E come osservava il filosofo e psicologo William James in un discorso che commentava il saggio di Clifford, la fede religiosa è un dominio che, per definizione, richiede che una persona creda senza prove. In sintesi tutte le menzogne, le teorie della cospirazione, le propagande, i classici errori di vecchia natura, costituiscono una minaccia alla verità quando si diffondono come funghi attraverso le comunità e si radicano nelle menti della gente. Ma la contraddizione intrinseca della falsa conoscenza è che solo chi non ne è coinvolto riesce a dire che è falso. E come si è visto è difficile controbattere coi fatti ciò che a una persona sembra la verità. A prima vista, è difficile capire perché l’evoluzione abbia permesso agli esseri umani di rimanere resistenti ai fatti. “Non ti conviene essere un negazionista e dire:” Oh, questa non è una tigre, perché dovrei credere che sia una tigre? “Perché ti potrebbe mangiare”, dice McIntyre. Ma da una prospettiva evolutiva, ci sono cose più importanti della verità. Prendiamo lo stesso scenario che McIntyre ha citato e rivediamolo dall’inizio – si sente un ringhio nei cespugli che suona proprio come una tigre. La cosa più sicura da fare –e premiante sul piano della selezione naturale- è probabilmente andarsene a gambe levate, anche se poi si scopre che era solo il nostro compagno di giochi. La sopravvivenza è più importante della verità. Il problema nella rete di informazioni del mondo odierno è che ci sono troppi furbi che sapendo come siamo fatti trovano la loro convenienza a farci scappare a gambe levate da una tigre immaginaria in direzione della loro pentola reale.